L’ARBITRATO CIVILE E COMMERCIALE. 1 L’arbitrato procedimento della giurisdizione ordinaria. 2. Arbitrato e mediazione. 3. La cognizione arbitrale. 4. La convenzione di arbitrato. 5. L'arbitrato rituale. 6. L'arbitrato irrituale. 7. Le ultime novità in materia di arbitrato. 1 L’arbitrato procedimento della giurisdizione ordinaria. Il legislatore ha voluto inserire in chiave alternativa e deflattiva rispetto alla giurisdizione, l’arbitrato che, invero, non può essere annoverato tra le c.d. adr (alternative dispute resolution) avendo una sua autonoma qualificazione giuridica ed una diversa funzione. L’arbitrato non nasce dall’emergenza e non appare un istituto alternativo rispetto alla giurisdizione ordinaria. C’è una ragione di carattere sistematico ed è la collocazione dell’arbitrato nel libro quarto del codice di procedura civile tra i procedimenti speciali. I titoli del libro quarto del codice di procedura civile concernono procedimenti che sono speciali rispetto al giudizio di cognizione ordinaria ma che rientrano tutti nell’esercizio della giurisdizione. Tra i procedimenti speciali il titolo VIII del Libro IV del codice di procedura civile prevede l’arbitrato rituale. Occorre ricondurre l’istituto dell’arbitrato alla sua funzione originaria evitando di accomunarlo ad altri strumenti aventi esclusivamente finalità deflattive della giurisdizione. L’arbitrato costituisce non una alternativa ma un procedimento della giurisdizione nel momento in cui matura il contenzioso. La mediazione e la negoziazione assistita attengono, invece, ad una fase preliminare che è comune e comunque, laddove obbligatoria, necessariamente prodromica rispetto al contenzioso giurisdizionale tra cui rientra anche quello arbitrale. L’arbitrato rituale condivide con la giurisdizione il tratto peculiare del “giudicare”: la lite viene decisa ed il lodo, alla pari della sentenza, è un atto riferibile ad un terzo quale esercizio di un giudizio che diventa vincolante per le parti compromittenti. In questo senso, il procedimento arbitrale è equiparabile e rientra nella giurisdizione ordinaria. La Corte costituzionale, nel riconoscere agli arbitri rituali la possibilità di sollevare questioni di legittimità costituzionale, aveva descritto l’arbitrato come «procedimento previsto e disciplinato dal codice di procedura civile per l’applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della risoluzione di una controversia, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria», concludendo nel senso che – sotto questo punto di vista - «il giudizio arbitrale non si differenzia da quello che si svolge davanti agli organi statali della giurisdizione» (sentenza 28.11.2001 n.376). L’equipollenza del risultato porta a valorizzare l’autonomia delle parti, libere di scegliere uno strumento per la risoluzione del loro conflitto nell’ambito della giurisdizione mediante l’arbitrato che, si ribadisce, è un procedimento speciale del codice di procedura civile. Il legislatore, con l’art.23 del d.lgs. 2.2.2006 n.40, ha inserito nel codice di procedura civile l’art. 824-bis, che ha riconosciuto al lodo «dalla data della sua ultima sottoscrizione tutti gli effetti della sentenza pronunciata dall'autorità giudiziaria», salvo quelli della esecutorietà a dichiararsi invece dal tribunale ai sensi e per gli effetti dell’art.825 c.p.c.. Questa norma rappresenta, forse, l'aspetto più innovativo di tutta la riforma dell'arbitrato poiché ha sostituito l'art. 823, ult. co., dando attuazione alla legge delega che conteneva una precisa direttiva a favore della equiparazione del lodo alla decisione del giudice ordinario. Già in precedenza era intervenuta la L. 5.1.1994, n. 25, la quale abrogava la disposizione secondo cui il decreto di esecutorietà conferiva al lodo «efficacia di sentenza», eliminando altresì la previsione di un termine per il deposito. Conseguentemente, l'efficacia vincolante riconosciuta al lodo sin dal giorno della sua ultima sottoscrizione non era destinata a cambiare per effetto dell'esecutorietà. In questo senso si sono espresse le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali hanno ritenuto che l'arbitrato abbia natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario (Ordinanza Cass. Civ. SS.UU. 25.10.2013 n. 24153). La Cassazione si è espressa in tal senso specificando ulteriormente che gli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta dinanzi al giudice statale, in caso incompetenza di quest’ultimo, si conservano dinanzi all’organo arbitrale (Cassazione 21.01.2015 n.1101). Anche la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 819-ter nella parte in cui non consente la salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta al giudice o all’arbitro in caso di declinatoria di competenza con conseguente necessità di introdurre il giudizio di fronte all’organo munito di “potestas iudicandi” (Corte costituzionale 19 luglio 2013, n. 223). La configurabilità dell’arbitrato rituale come procedimento speciale della giurisdizione, rientrante tra quelli di cui al libro IV del codice di procedura civile, dovrebbe portare ad escludere la obbligatorietà della media-conciliazione o della negoziazione assistita per tutte le controversie che vengano compromesse in arbitri. La peculiarità dello strumento arbitrale e la composizione dell’organo giudicante fuori dall’apparato giudiziario sono elementi che il legislatore non può trascurare anche e soprattutto nell’ottica deflattiva dei provvedimenti emergenziali di questi ultimi anni. Non ha senso, quindi, imporre la media-conciliazione o la negoziazione assistita come condizione di procedibilità per le controversie compromettibili in arbitri. Nel momento in cui le parti litiganti convengono per la risoluzione arbitrale della controversia, l’effetto deflattivo del carico giudiziario è in re ipsa già nella scelta dello strumento. Piuttosto la esclusione della condizione di procedibilità per le controversie arbitrali potrebbe avere l’effetto di incentivare il ricorso allo strumento arbitrale che sarebbe “alternativo” in questo senso. Si può, in definitiva, affermare che l’arbitrato può essere visto in funzione sostitutiva piuttosto che alternativa rispetto alla giurisdizione ordinaria. 2. Arbitrato e mediazione. Una problematica che vale la pena di affrontare anche in questa sede concerne il rapporto tra la mediazione e l’arbitrato. Nelle materie concernenti condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, nel caso di controversia, ove si voglia esercitare in giudizio la relativa azione, in virtù di quanto previsto dall’art.5 co.1 e co.1 bis del decreto legislativo 04.03.2010 n.28, è necessario preliminarmente ed obbligatoriamente esperire la media-conciliazione. Come si può agevolmente rilevare, non vi è alcun riferimento all’arbitrato. Sia il comma 1 che il comma 1 bis dell’art.5 del d.lgs. n.28/2010 prevedono espressamente che “l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale” e non del procedimento arbitrale. Entrambi i commi poi disciplinano i termini per eccepire l’improcedibilità dinanzi al giudice (e non all’arbitro) ed i poteri del giudice medesimo che rimette le parti dinanzi all’organismo di mediazione rinviando l’udienza per consentire alle parti l’espletamento del tentativo di mediazione. Per le materie indicate al comma 1 ed al comma 1 bis, quindi, la condizione di procedibilità vale solo per il caso in cui si eserciti l’azione giudiziaria e non il procedimento arbitrale. Nel comma 5 dell’art.5 del d.lgs. n.28/2010 viene stabilito che “fermo quanto previsto dal comma 1 bis e salvo quanto disposto dai commi 3 e 4, se il contratto, lo statuto ovvero l'atto costitutivo dell'ente prevedono una clausola di mediazione o conciliazione e il tentativo non risulta esperito, il giudice o l'arbitro, su eccezione di parte, proposta nella prima difesa, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione e fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all'articolo 6. Allo stesso modo il giudice o l'arbitro fissa la successiva udienza quando la mediazione o il tentativo di conciliazione sono iniziati, ma non conclusi”. Solo in quest’ultima disposizione, che si riferisce alle clausole di mediazione o conciliazione e non alla mediazione obbligatoria, compare la figura dell’arbitro e viene prevista la possibilità che anche quest’ultimo, su eccezione di parte (e non di ufficio) debba rinviare il procedimento per consentire l’espletamento del procedimento di mediazione. Il legislatore, quindi, non ha previsto che la mediazione debba essere considerata obbligatoria e quindi condizione di procedibilità per l’espletamento del procedimento arbitrale se non nei casi in cui sorga controversia in ordine a rapporti derivanti da contratti, statuti o atti costitutivi contenenti clausole di mediazione, così intendendo graduare il ricorso agli strumenti di risoluzione alternativa. Un argomento a favore della tesi appena esposta lo si deduce dalla circostanza che nel testo vigente dell'art. 5, Dlgs 28/2010 rispetto allo schema approvato alla fine di ottobre 2009 dal Consiglio dei Ministri, è stato stralciato il comma 7 in base al quale era previsto che "le disposizioni che precedono si applicano anche ai procedimenti davanti agli arbitri, in quanto compatibili". L’eliminazione del comma 7, condivisa anche da CNF e CSM nella stesura definitiva del decreto legislativo n.28/2010, è sintomatica della esclusione dell’applicabilità dell’art.5 all’arbitrato, quando meno con riferimento ai commi 1 e 1 bis in cui non è espressamente richiamato. Un ulteriore elemento di carattere testuale a dimostrazione della non applicabilità de plano delle disposizioni sulla mediazione all’arbitrato si rinviene dall’art.13, comma 3, del d.lgs. n.28/2010 che esclude che possa essere applicato ai procedimenti arbitrali il regime delle spese di giudizio che segue ad un mancato accordo in mediazione, salvo diverso accordo delle parti. Ed, infine, va considerato un elemento di carattere sistematico che porterebbe ad escludere la applicabilità delle norme della mediazione di cui ai commi 1 e 1 bis dell’art.5 del d.lgs. n.28/2010 ai procedimenti arbitrali: il procedimento arbitrale rientra tra i procedimenti speciali di cui al libro IV del codice di procedura civile per i quali la mediazione viene esclusa dai commi 3 e 4 dello stesso art.5. Di certo permangono dubbi in ordine alla necessità di esperire obbligatoriamente il procedimento di mediazione con riferimento alle materie indicate dai commi 1 e 1 bis dell’art.5 d.lgs. n.28/2010 in caso di insorgenza di controversie che le parti decidano di compromettere in arbitri, mentre è certo il preventivo ricorso alla mediazione nel caso in cui risultino nel contratto che disciplina il rapporto clausole di mediazione o conciliazione. 3. La cognizione arbitrale. L’art.20 del decreto legislativo n.40/2006 ha sostituito l’intero capo I del titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile introducendo l’art.806 che ha fissato il criterio per la determinazione delle materie devolvibili ad arbitri escludendo le liti che hanno ad oggetto diritti indisponibili e tutte quelle altre per le quali vi è un espresso divieto di legge. Sono esempi di diritti indisponibili i diritti c.d. privatissimi o della personalità (status, salute, integrità fisica, libertà). In dottrina si è ritenuto che possano essere compromettibili anche le controversie relative alle conseguenze patrimoniali derivanti da atto illecito lesivo di diritti indisponibili. Costituisce elemento sintomatico della indisponibilità di compromettere in arbitri la necessità di intervento in una controversia del pubblico ministero. L’intervento obbligatorio del pubblico ministero rappresenta un limite legislativo all’arbitrabilità. Vi sono poi settori dell’attività giudiziaria civile in cui non possono essere introdotti procedimenti arbitrali, in quanto il nostro ordinamento non consente che il provvedimento di un giudice possa essere sostituito da un lodo arbitrale. Sono esclusi, quindi, i casi in cui non vi siano controversie sui diritti, come le procedure di volontaria giurisdizione, o quelli in cui è necessaria l’adozione di poteri coercitivi che non sono attribuiti agli arbitri, come le esecuzioni forzate, l’opposizione agli atti esecutivi e all’esecuzione, le controversie possessorie, la convalida di sfratto e di licenza per finita locazione, i provvedimenti cautelari ed anticipatori. In passato si riteneva che non potessero essere compromesse in arbitri le controversie di diritto amministrativo sul rilievo della indisponibilità della funzione pubblica ma la questione è stata definitivamente risolta dall’art. 12 del codice del processo amministrativo (decreto legislativo 02.07.2010 n.104) ed, ancor prima, dall’art. 6, co. 2, lege n.205/2000). Con riferimento all’arbitrato nelle controversie in materia societaria è prevista anche qui una disciplina speciale agli artt.34 – 37 del decreto legislativo 17.01.2003 n.5 recante “definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia”. Trattasi del decreto legislativo che aveva introdotto il c.d. “rito societario”, stralciato in blocco con l’abrogazione degli artt. 1 – 33 ad opera dell’art.54, co.5, della legge 18.06.2009 n.69 contenente la delega al Governo per la riduzione e la semplificazione dei procedimenti civili. Mentre le disposizioni processuali del diritto societario sono state tutte abrogate, sono rimaste quelle concernenti l’arbitrato. La disciplina dell’arbitrato societario è autonoma rispetto a quella del codice di procedura civile ed ha degli aspetti peculiari che ne contraddistinguono il procedimento. L’art.806 co.2 c.p.c. estende la cognizione arbitrale anche alle controversie di cui all’art.409 c.p.c., solo se previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi, ossia ai rapporti di lavoro subordinato privato, anche se non inerenti all'esercizio di una impresa, ai rapporti di mezzadria, di colonia parziaria, di compartecipazione agraria, di affitto a coltivatore diretto, nonché rapporti derivanti da altri contratti agrari (salva la competenza delle sezioni specializzate agrarie), ai rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato, ai rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici che svolgono esclusivamente o prevalentemente attività economica, ai rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici ed altri rapporti di lavoro pubblico, sempreché non siano devoluti dalla legge ad altro giudice. Una volta che si sia dato corso al giudizio arbitrale è fatto divieto di far valere le proprie ragioni in via giudiziaria, ciò vale sia per le cause aventi ad oggetto l'illegittimità del licenziamento, sia la domanda di reintegrazione del dipendente illegittimamente licenziato. Anche per le controversie di cui all’art.409 c.p.c. vi è una autonoma disciplina dell’arbitrato e dei procedimenti dettata dagli artt. 412 ter e 412 quater c.p.c.. Per l’arbitrato concernente le cause individuali di lavoro è prevista una disciplina speciale agli artt.412 ter e 412 quater del codice di procedura civile. Nel Collegato Lavoro del 2010 l'istituto dell'arbitrato per le controversie di lavoro è stato innovato e consente di scegliere fra quattro tipi diversi di arbitrato irrituale. Le parti possono affidare il mandato a risolvere la controversia in via arbitrale alle Commissioni di conciliazione presso la Direzione Provinciale del lavoro (DPL) durante lo svolgimento del tentativo di conciliazione o nel caso in cui questo non dovesse andare a buon fine (art. 412 c.p.c. riformato). Le parti possono indicare alla Commissione la soluzione sulla quale concordano e quindi accordarsi per la risoluzione della controversia. Il lodo emesso a conclusione dell'arbitrato ha valore di legge tra le parti e l'oggetto dell'accordo non può essere impugnato. Altra opzione concessa alle parti dalla legge riguarda la possibilità di risolvere la controversia di lavoro in via stragiudiziale avvalendosi dell'arbitrato presso le sedi sindacali, procedura che si svolge applicando le modalità previste dai contratti collettivi (art. 412 ter c.p.c.). Terza possibilità di risoluzione delle controversie di lavoro è data dalla procedura che si può svolgere dinanzi ad un Collegio di conciliazione e arbitrato irrituale (art. 412 quater c.p.c.). Il collegio è composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro, scelto di comune accordo, con le funzioni di Presidente. La parte che decide di avvalersi del procedimento arbitrale notifica alla controparte un ricorso in cui sono indicate le ragioni di fatto e di diritto su cui si fonda la pretesa del ricorrente, con l'eventuale richiesta al collegio di decidere secondo equità. Nel caso in cui la controparte accetti di aderire alla procedura arbitrale, dopo la scelta degli arbitri, deve depositare la propria memoria difensiva. Tra l'altro durante la prima udienza il collegio arbitrale esperisce un tentativo di conciliazione. La lite viene definita mediante il lodo. Infine, le parti in conflitto possono decidere di risolvere la controversia dinanzi alle apposite camere arbitrali costituite dagli organi di certificazione, secondo quanto dispone l'attuale art. 31, comma 12, della Legge n. 183/2010. La legge non prevede alcuna delimitazione con riferimento al tipo di azione proponibile e quindi l’arbitrato è aperto a pronuncia che può essere di accertamento, di condanna o costitutiva. 4. La convenzione di arbitrato. Convenzione di arbitrato è l’espressione introdotta con la riforma operata dal decreto legislativo 02.02.2006 n.40 che ha modificato le norme del codice di procedura civile in tema di arbitrato. Si tratta di un negozio giuridico mediante il quale le parti rimettono ad uno o più arbitri la decisione di una controversia che può essere già tra loro insorta o che potrebbe insorgere relativamente ad un rapporto giuridico sostanziale. Elemento essenziale è l’accordo delle parti da cui emerga che intendono rinunciare alla giurisdizione ordinaria rimettendo la decisione della lite agli arbitri La convenzione arbitrale si articola in tre tipologie: a) il compromesso (art.807 c.p.c.), b) la clausola compromissoria (art.808 c.p.c.), c) la convenzione di arbitrato non contrattuale (art.808 bis c.p.c.). a) Il compromesso. Si tratta di un negozio con cui le parti devolvono ad arbitri la soluzione di una controversia, di natura contrattuale o extracontrattuale, che sia già insorta tra loro. Come già previsto nel testo previgente dell’art.807 c.p.c., per la validità del compromesso è richiesto il requisito della forma scritta ad substantiam anche se non necessariamente deve esserci contestualità nella predisposizione del documento. Le parti possono, quindi, stipulare un compromesso sottoscrivendo due documenti distinti aventi identico contenuto. La volontà negoziale si può anche manifestare con lo scambio delle missive contenenti rispettivamente la proposta e l'accettazione del deferimento della controversia ad arbitri, dovendosi interpretare la richiesta di costituzione di un collegio arbitrale e la relativa accettazione come concorde volontà di compromettere la lite in arbitri. In giurisprudenza è stata ritenuta valida anche la clausola compromissoria relativa ad una serie di contratti di compravendita, contenuta però in una scrittura privata stipulata successivamente all’atto notarile relativo ad uno di tali contratti. Anche in dottrina si è affermata la ammissibilità della formazione progressiva del negozio compromissorio. È necessario che risulti in modo chiaro e non equivoco la volontà delle parti di compromettere in arbitri. La forma scritta è richiesta, a pena di nullità, solo per l'arbitrato rituale, mentre, per quello irrituale, detta forma è richiesta solo se esso concerne rapporti per i quali è prevista la forma scritta ad substantiam ai sensi dell'art. 1350 C.C.. Negli altri casi di arbitrato irrituale è prevista la forma scritta ad probationem con riferimento all’art.1967 C.C.. La mancanza della forma scritta produce la nullità della convenzione di arbitrato comportando il difetto del potere di giudicare da parte degli arbitri e, conseguentemente, la nullità del lodo che sia stato pronunciato. La violazione della forma scritta costituisce una nullità rilevabile d'ufficio. Costituisce, invece, eccezione in senso proprio e, come tale, rilevabile solo su eccezione di parte, l'eccezione di compromesso. La devoluzione della controversia agli arbitri su accordo delle parti configura una rinuncia all’esperimento dell’azione giudiziaria ed alla giurisdizione dello Stato. Nel caso in cui venga instaurata da una delle parti che abbiano stipulato il compromesso arbitrale l’azione giudiziaria ordinaria, è consentita alle altre parti di sollevare la eccezione con cui si vuol far valere il fatto impeditivo dell’esercizio della giurisdizione statale ma tale eccezione deve essere proposta nei tempi e nei modi propri delle eccezioni di merito, come affermato dalla giurisprudenza. Analogamente deve dirsi per l'eccezione con cui si contesti la rinuncia ad avvalersi dell'arbitrato. Tali eccezioni non possono essere avanzate per la prima volta nè nei giudizi di impugnazione, nè a maggior ragione in giudizi diversi per eludere il contenuto della pronuncia arbitrale nel frattempo divenuto definitivo. Il comma 2 dell’art.807 c.p.c., nella sua ultima formulazione, esplicita le forme scritte ritenute valide, con integrazione dei nuovi strumenti oggi a disposizione, in aggiunta al telegrafo e alla telescrivente, quali il fax ed i messaggi telematici, con espresso richiamo alla normativa, anche regolamentare, concernente la trasmissione e la ricezione dei documenti trasmessi in via telematica. A tale riguardo si richiamano gli artt. 20, 21, 71, D.Lgs. 7.3.2005, n. 82, Codice dell'amministrazione digitale. E’ richiesta ad substantiam anche la determinazione dell’oggetto del compromesso che consente di delineare i poteri arbitrali e di esattamente individuare i temi sui quali gli arbitri sono chiamati a decidere. La giurisprudenza prevede che, in caso di dubbio in ordine alla interpretazione della portata del compromesso lo stesso deve interpretarsi restrittivamente, ovvero deve attribuirsi la sopravvivenza della giurisdizione statuale. Una parte della dottrina ritiene necessario che vengano formulati specifici quesiti da sottoporre agli arbitri a pena di nullità, alcuni invece affermano che non è necessario definire l’ambito di cognizione degli arbitri essendo sufficiente indicarne l’oggetto specificando in seguito i quesiti. b) La clausola compromissoria. Molte delle questioni già affrontate per il compromesso sono comuni con la clausola compromissoria. Rispetto al compromesso la clausola compromissoria non presuppone che sia già sorta controversia tra le parti. L’art.808 c.p.c. prevede che le parti possano stabilire che le possibili controversie nascenti da un determinato contratto vengano sottoposte ad arbitri purchè rientranti nella cognizione arbitrale di cui si è già detto. La clausola compromissoria deve essere apposta per iscritto. Poiché nel testo previgente alla riforma del 1994 era espressamente prevista la sanzione di nullità per la mancanza della forma scritta e nel testo attuale non è stata richiamata, la dottrina prevalente e la giurisprudenza sostengono che la forma scritta debba non più intendersi ad substantiam bensì ad probationem tantum. c) convenzione di arbitrato non contrattuale. L’art.808 bis c.p.c., introdotta dal d.lgs. n. 40/2006, applicabile alle convenzioni di arbitrato stipulate successivamente al 3 marzo 2006, consente la stipula di una convenzione volta a compromettere in arbitri controversie future concernenti rapporti non contrattuali, sempre che determinati e fatta salva l'osservanza dei requisiti formali richiesti dall'art. 807, fermo, naturalmente, il presupposto della compromettibilità ai sensi dell'art. 806. In assenza di riferimenti giurisprudenziali, la norma appare applicabile, a titolo di esempio, in tema di responsabilità precontrattuale, ripetizione d'indebito, gestione di affari, arricchimento senza causa, concorrenza sleale, responsabilità da prodotto, rapporti proprietari, di vicinato, di comunione e condominio, successione per causa di morte (a quest'ultimo riguardo, in dottrina, secondo Zucconi Galli Fonseca 2010, 1363), la convenzione in questione potrebbe essere contenuta nel testamento, allo scopo di devolvere ad arbitri le controversie che possano in futuro insorgere tra gli eredi e legatari; si osserva in contrario che il testamento è atto unilaterale che non può come tale contenere una convenzione tra soggetti che eredi o legatari per definizione ancora non sono). 5. L'arbitrato rituale. L'arbitrato rituale è quindi quello previsto e disciplinato dal codice di rito avente ad oggetto l'esame, da parte degli arbitri, di un conflitto sorto o che sorgerà in futuro tra le parti, e dal quale scaturirà una decisione. Con la scelta di adire l'arbitrato in luogo dell'azione ordinaria le parti operano una rinuncia alla cognizione di determinate materie alla giurisdizione ordinaria. L'arbitrato rituale è quello avente la funzione e la struttura del giudizio (MANDRIOLI). Le parti affidano ad un arbitro ovvero, a più arbitri, attraverso il compromesso o la clausola compromissoria (attraverso un negozio giuridico) un vero e proprio giudizio privato la cui struttura giudiziaria è sufficiente per attribuire al lodo arbitrale l'efficacia che è quella dell'atto giurisdizionale ad eccezione dell'efficacia esecutiva e dell'idoneità all'iscrizione dell'ipoteca e alla trascrizione (ancorate al deposito dello stesso presso la cancelleria del Tribunale e ad un successivo atto del Tribunale). L'efficacia vincolante tra le parti viene acquisita dal lodo dalla data della sua ultima sottoscrizione ex art. 823, ult. co.. Si tratta di un giudizio privato attraverso il quale gli arbitri, nella loro qualità di soggetti che operano come giudici, sono sprovvisti dei relativi poteri autoritativi ma hanno soltanto i poteri conferiti contrattualmente. L'arbitrato che viene disciplinato dalla normativa del codice di procedura civile viene quindi chiamato arbitrato rituale. I giudici di merito hanno sottolineato come l'arbitrato rituale sia quello che segue le norme del codice di rito, ovvero quando gli arbitri abbiano gli stessi poteri ed obblighi dei giudici dello Stato (T. Torino 23.1.1986). Le norme applicabili all'arbitrato rituale sono quello di cui al titolo VIII del libro IV agli artt. 806 - 840 vigente prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. 2.2.2006, n. 40 (titolo già modificato dalla L. 9.2.1983, n. 28, dalla L. 5.1.1994, n. 25, dal D.Lgs. 31.3.1998, n. 80 e successive modifiche). Tali norme delineano un vero e proprio giudizio, un vero e proprio iter procedimentale che inizia con un negozio giuridico, quale è il compromesso o la clausola compromissoria (artt. 806-808), che conferisce agli arbitri il potere di decidere su di una determinata controversia; prosegue con la previsione di dettagliate norme sugli arbitri (artt. 809815), sul procedimento, fino alla decisione degli arbitri stessi (lodo) (artt. 816-826). Il codice disciplina anche l'ipotesi in cui il lodo possa essere soggetto ad impugnazioni (artt. 827-831). Viene infine dato spazio anche all'arbitrato internazionale (v. infra, par. 11) ed ai lodi stranieri (artt. 832 840). Numerose sono le fonti che disciplinano l'arbitrato: oltre che dal codice di rito l'arbitrato è disciplinato da una molteplicità di fonti. Degni di menzione sono anche i regolamenti arbitrali, che però, propriamente parlando, non sono norme giuridiche, non costituiscono diritto oggettivo poiché vincolano solo coloro che liberamente scelgono gli arbitrati così regolati, e non si pongono, in genere, in contrasto con normative nazionali ed internazionali, tutt'al più integrandole. Si parla di arbitrato amministrato quando tutti gli aspetti della procedura sono disciplinati da regole emanate da organismi/istituzioni arbitrali permanenti (come ad esempio la Camera di Commercio o altri enti o organismi che gestiscono le controversie). L’ente prescelto ha il proprio regolamento arbitrale che disciplina l’intero procedimento arbitrale in tutte le sue fasi, dalla costituzione del collegio arbitrale allo svolgimento del procedimento vero e proprio. Questa soluzione consente in particolare di superare le situazioni di empasse procedurale dovute all’inerzia o al disaccordo delle parti sull’individuazione delle regole da applicare alla procedura; di rimuovere ogni ostacolo che possa insorgere nel corso del procedimento arbitrale; di limitare al massimo l’intervento dei tribunali nazionali; di supervisionare il procedimento e l’operato degli arbitri rendendo la procedura più efficiente e rapida; di conoscere i costi in anticipo essendo prefissati dell’istituzione in base al tariffario dell’istituzione arbitrale. 6. L'arbitrato irrituale. Accanto all'arbitrato rituale è nato nella pratica l'arbitrato irrituale altrimenti detto arbitrato libero, disciplinato dall’art.808 ter c.p.c.: Le parti possono, con disposizione espressa per iscritto, stabilire che, in deroga a quanto disposto dall'articolo 824-bis, la controversia sia definita dagli arbitri mediante determinazione contrattuale. Altrimenti si applicano le disposizioni del presente titolo. Il lodo contrattuale è annullabile dal giudice competente secondo le disposizioni del libro I: 1) se la convenzione dell'arbitrato è invalida, o gli arbitri hanno pronunciato su conclusioni che esorbitano dai suoi limiti e la relativa eccezione è stata sollevata nel procedimento arbitrale; 2) se gli arbitri non sono stati nominati con le forme e nei modi stabiliti dalla convenzione arbitrale; 3) se il lodo è stato pronunciato da chi non poteva essere nominato arbitro a norma dell'articolo 812; 4) se gli arbitri non si sono attenuti alle regole imposte dalle parti come condizione di validità del lodo; 5) se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio. Al lodo contrattuale non si applica l'articolo 825. All'arbitrato irrituale, istituto nato dalla prassi e, fino alla riforma del 2006, privo di disciplina normativa, è dedicata la suddetta norma, con la quale si può supporre il legislatore abbia inteso diradare cospicui dubbi concernenti il complessivo inquadramento della figura e ribaltare taluni orientamenti giurisprudenziali in proposito formatisi. Si dirà in estrema sintesi che la dottrina tradizionale guardava all'arbitrato rituale e irrituale come a fenomeni affatto distinti, l'uno collocato sul terreno processuale, l'altro su quello negoziale: l'arbitrato rituale tale da comportare l'esercizio di un'attività sostitutiva di quella giurisdizionale; l'arbitrato irrituale, o libero, tale da comportare, a mezzo degli arbitri, la soluzione negoziale della lite, sotto forma di mandato a transigere o di arbitraggio (art. 1349 c.c.) applicato alla transazione, ma anche, più avanti, di negozio di accertamento. La giurisprudenza ha qualificato l'arbitrato irrituale come istituto di diritto sostanziale riconducibile nello schema negoziale del mandato, il cui contenuto specifico consiste nell'incarico, conferito a comuni mandatari, di regolare la controversia in via di composizione amichevole e transattiva, nonché, in epoca meno remota, da Cass. n. 11357/1994, Cass. n. 2741/1998, Cass. n. 4954/1999, Cass. n. 8788/2000, Cass. n. 4841/2002, Cass. n. 15353/2004; Cass. n. 1398/2005; Cass. n. 24059/2006) secondo cui il patto compromissorio libero non demanda agli arbitri l'esercizio di una funzione giurisdizionale, ma conferisce loro un mandato per l'espletamento di una attività negoziale (Cass. n. 5105/2012; Cass. n. 6830/2014), o dal principio più volte ribadito secondo cui, essendo l'arbitrato irrituale frutto di volontà contrattuale e non alternativo alla giurisdizione dello Stato, va, in caso di arbitrato irrituale, esclusa l'ammissibilità del regolamento preventivo di giurisdizione (p. es. Cass.S.U., n. 6423/2008) e del regolamento di competenza (p. es. Cass. n. 21869/2012; Cass. n. 10300/2014, ove si afferma che all'arbitrato irrituale sono inapplicabili tutte le norme dettate per quello rituale, ivi compreso l'art. 819 ter). La natura negoziale del lodo irrituale, faceva sì, in passato che esso rimanesse assoggettato non già all'impugnazione per nullità prevista dagli artt. 827 ss. (da ult. Cass. n. 10300/2014; Cass. n. 6830/2014), bensì alle impugnative negoziali esperibili nei riguardi dei contratti: impugnabile, dunque, non per errori di diritto, ma solo per i vizi che possono vulnerare ogni manifestazione di volontà negoziale, come l'errore, la violenza, il dolo o l'incapacità delle parti che hanno conferito l'incarico e dell'arbitro stesso (es. Cass. n. 22374/2006). Merita infine sottolineare che, agli effetti dell'individuazione del mezzo con cui il lodo va impugnato, ciò che conta è la natura dell'atto in concreto posto in essere dagli arbitri, più che la natura dell'arbitrato come previsto dalle parti; pertanto, se sia stato pronunciato un lodo rituale nonostante le parti avessero previsto un arbitrato irrituale, quel lodo è impugnabile esclusivamente ai sensi degli artt. 827 e ss. (Cass. n. 6842/2011, in Riv. arb., 2013, 931, con nota di Debernardi), e, per converso, se è stato pronunciato lodo irrituale, non può in ogni caso ricorrersi a detta impugnazione (Cass. n. 25258/2013). L'arbitrato libero è uno strumento di risoluzione della controversia che contempera due esigenze diverse. Da una parte viene affidata la decisione della lite a persone di fiducia dotate di competenze tecniche specifiche; dall'altra si giunge alla decisione in tempi molto più rapidi rispetto alla via giudiziaria ordinaria. La caratteristica principale dell'arbitrato libero è che le parti conferiscono a terzi la risoluzione di una controversia mediante un atto negoziale: in questo modo le parti si impegnano ad accettare la decisione degli arbitri come se fosse scaturita dagli stessi. La giurisprudenza di legittimità ha sottolineato come le parti, scegliendo la forma dell'arbitrato irrituale, intendano affidarsi alla volontà degli arbitri, nella veste di mandatari (C. 15353/2004). Conseguentemente, la sussistenza di una clausola compromissoria per arbitrato irrituale non costituisce una questione di competenza, ma determina l'improcedibilità della domanda ed è rilevabile solo ad opera di parte (C. 5265/2011). L'arbitrato irrituale non è soggetto al regime di impugnazione previsto per l'arbitrato rituale dal c.p.c.: il lodo arbitrale irrituale può essere attaccato solo da impugnazioni di tipo negoziali. La Suprema Corte sul tema dell'impugnabilità della decisione arbitrale irrituale, muovendo dal fondamento dell'istituto (impegno delle parti a considerare come propria la volontà degli arbitri), è unanime nel ritenere che il dictum degli arbitri è impugnabile solo per quei vizi che possano vulnerare ogni manifestazione di volontà (errore violenza, dolo, incapacità delle parti o degli arbitri) e quindi per quei vizi che determinano la nullità o l'annullabilità dell'impegno, essendo esclusa ogni impugnativa per errori di diritto (C. 16049/2004; C. 9392/2004; C. 10035/2002). La violazione del principio del contraddittorio costituisce violazione del contratto di mandato e, come tale, rileva ai fini dell'impugnazione ex art. 1429 c.c. (C. 11678/2001). Ulteriore motivo di impugnazione è il c.d. eccesso dai limiti del mandato che si verifica quando gli arbitri abbiano pronunciato al di fuori di quanto devoluto alla loro cognizione. 7. Le ultime novità in materia di arbitrato. È stato da poco pubblicato il decreto legislativo del 10 ottobre 2022, n. 149, di “Attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata”. Accanto a modifiche di mero coordinamento, come, ad esempio, quelle finalizzate a tener conto della possibilità per gli arbitri di concedere provvedimenti cautelari e il trasferimento della disciplina sull’arbitrato societario direttamente nel codice di rito, si sono aggiunti interventi più incisivi, attraverso la novellazione delle disposizioni esistenti o con l’introduzione di nuovi articoli. Sono stati modificati, segnatamente, gli articoli 810, 813, 815, 816-bis.1, 818, 818-bis, 818-ter, 819-quater, 822, 828 c.p.c. V. infra. 3 Agli articoli 669-quinquies e 669-decies c.p.c. ex art. 3, comma 47, lett. c) e d) del d.lgs. n. 149/2022. Quel che emerge è che l’obiettivo del legislatore sia stato dunque quello di valorizzare e potenziare l’istituto arbitrale, anche e soprattutto al fine di deflazionare il contezioso giurisdizionale, obiettivo che resta il leitmotiv dell’intera riforma. In tal senso, il legislatore ha tentato di rendere l’arbitrato uno strumento più “appetibile”, non solo in punto di tutela offerta (introducendo, anche per gli arbitri di diritto comune, la possibilità di concedere provvedimenti cautelari), ma anche in termini di opportunità e di effettiva giustizia della soluzione offerta. È infatti in questa direzione che si colloca l’obbligo di c.d. previa disclosure in capo agli arbitri, che sin dalla fase di costituzione del collegio sono tenuti a dichiarare l’eventuale esistenza di circostanze che potrebbero renderli non imparziali rispetto al procedimento. Domanda arbitrale e translatio iudicii. Prima fra tutte, anche in ordine sistematico, è la (tanto agognata) modifica in tema di translatio iudicii, prevista dall’art. 3, comma 52, lett. d) del d.lgs. n. 149/2022, introduttivo dl nuovo art. 819-quater c.p.c: (Riassunzione della causa). Il processo instaurato davanti al giudice continua davanti agli arbitri se una delle parti procede a norma dell'articolo 810 entro tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza con cui è negata la competenza in ragione di una convenzione di arbitrato o dell'ordinanza di regolamento. Il processo instaurato davanti agli arbitri continua davanti al giudice competente se la riassunzione della causa ai sensi dell'articolo 125 delle disposizioni di attuazione del presente codice avviene entro tre mesi dal passaggio in giudicato del lodo che declina la competenza arbitrale sulla lite o dalla pubblicazione della sentenza o dell'ordinanza che definisce la sua impugnazione. Le prove raccolte nel processo davanti al giudice o all'arbitro dichiarati non competenti possono essere valutate come argomenti di prova nel processo riassunto ai sensi del presente articolo. L'inosservanza dei termini fissati per la riassunzione ai sensi del presente articolo comporta l'estinzione del processo. Si applicano gli articoli 307, quarto comma, e 310.». Si assiste dunque ad un sostanziale allineamento della disciplina dettata in materia arbitrale a quella già prevista per il processo, il che ben spiega la ragione per la quale, al pari di quanto previsto per quest’ultimo, anche in tal caso l’inerzia delle parti darà luogo alla estinzione del processo per inattività qualificata. Nomina degli arbitri e obbligo di trasparenza. Altro parallelismo introdotto dalla riforma è quello che attiene alla nomina degli arbitri e, più esattamente, alla introduzione dell’ipotesi di astensione facoltativa per “gravi ragioni di convenienza”, introdotta dall’art. 3, comma 51, lett. c) del decreto legislativo n. 149/2022. Al fine di preservare l’affidamento di queste nei confronti del giudice privato, l’idea era dunque prevedere che gli arbitri siano tenuti a rispettare un obbligo di rivelazione di tutte le circostanze di fatto (quali, in via esemplificativa, la presenza di eventuali legami o relazioni con le parti o i loro difensori) che potrebbero minare la garanzia di imparzialità anche soltanto nella percezione delle parti (c.d. duty of disclosure) già previsto da altri ordinamenti). La “preoccupazione” del legislatore, che sia effettivamente garantita l’imparzialità del collegio e quindi l’affidamento delle parti emerge soprattutto dalla sanzione prevista nel caso di incompleta dichiarazione dell’arbitro. Sul punto, giova ricordare che l’art. 813 c.p.c., che disciplina l’accettazione degli arbitri, prevedeva che questa avvenisse in forma scritta, risultante eventualmente anche dal compromesso o dal verbale della prima riunione. Ebbene, la disposizione è stata completamente riscritta dal legislatore della riforma, attraverso la previsione di un’ipotesi di nullità della stessa, prima esistente, e l’introduzione della facoltà per la parte di chiedere, a determinate condizioni, la decadenza dell’arbitro. In altre parole, a pena di nullità dell’accettazione, l’arbitro è tenuto a dichiarare la eventuale esistenza di circostanze suscettibili di valutazioni problematiche sul piano dell’indipendenza e dell’imparzialità. L’arma concessa alla parte, in caso di omissione di circostanze rilevanti, è la richiesta all’autorità giudiziaria di dichiarare la decadenza dell’arbitro, nelle forme dell’articolo 813 bis c.p.c., entro dieci giorni dall’accettazione compiuta senza la dichiarazione oppure dalla scoperta della circostanza rilevante non dichiarata. La modifica del successivo art. 815 c.p.c. fa da pendant all’introduzione di tale obbligo. Tale disposizione disciplina in maniera sostanzialmente equivalente a quella prevista per i magistrati i casi di ricusazione dell’arbitro; questi corrispondono ai casi di astensione obbligatoria previsti per i magistrati dall’art. 51 c.p.c. Ebbene, sempre in attuazione del principio di delega contenuto nell’art. 1, comma 15, lett. a, della l. 26 novembre 2021, n. 206, nonché al fine di rafforzare le garanzie di indipendenza e imparzialità degli arbitri, l’art. 3, comma 51, lett. c) ha introdotto all’articolo 815 c.p.c. un ulteriore motivo di ricusazione, il n. 6 bis), che reintroduce una clausola aperta di ricusazione, consistente nella emersione di gravi ragioni di convenienza, che possano incidere sull’indipendenza e sull’imparzialità degli arbitri. Si colloca in tale direzione, infatti, anche la modifica dell’art. 822 c.p.c. nel quale, dopo il primo comma, è aggiunto il seguente: «Quando gli arbitri sono chiamati a decidere secondo le norme di diritto, le parti, nella convenzione di arbitrato o con atto scritto anteriore all'instaurazione del giudizio arbitrale, possono indicare le norme o la legge straniera quale legge applicabile al merito della controversia. In mancanza, gli arbitri applicano le norme o la legge individuate ai sensi dei criteri di conflitto ritenuti applicabili». Arbitri e tutela cautelare. La scelta di riconoscere agli arbitri rituali, in presenza di determinate condizioni, il potere di emanare provvedimenti cautelari (art. 3, comma 52, lett. b del d.lgs. n. 149/2022), come previsto per l’arbitrato societario, rappresenta certamente la modifica di maggiore rilievo, anche sistematico. La modifica intervenuta, invece, valorizza e rafforza la tutela giurisdizionale conseguibile dinanzi a tali giudici privati, né di certo apporta un vulnus al principio di effettività della tutela, che invece ne esce rafforzato. S’intende cioè che il potere riconosciuto agli arbitri di emanare misure cautelari appare comunque presidiato da tutte le garanzie necessarie, che valgono in un certo senso ad allineare la disciplina dei poteri cautelari degli arbitri all’analogo potere giudiziale. Il potere di emanare misure cautelari, infatti, è stato circoscritto al solo arbitrato rituale, che è pacificamente considerato espressione di giurisdizione, e passa comunque per una previa manifestazione di consenso in tal senso ad opera delle parti, anche mediante rinvio a regolamenti arbitrali. In base all’art. 818 c.p.c., come modificato, infatti, gli arbitri possono emanare misure cautelari solo quando vi sia una espressa volontà delle parti, che sia stata manifestata nella convenzione di arbitrato o in atto scritto successivo, comunque anteriore all’instaurazione del giudizio arbitrale. L’individuazione di tale criterio temporale risponde all’esigenza di cristallizzare, come per la legge applicabile alla controversia, prima dell’instaurarsi della litispendenza arbitrale il perimetro dei poteri spettanti agli arbitri, così da attribuire maggiore certezza in proposito sia alle parti, sia agli arbitri. La competenza in materia cautelare è esclusiva. Ne discende che, nel caso in cui una delle parti dovesse chiedere la tutela cautelare in sede giudiziale, nonostante la diversa previsione della convenzione arbitrale, il giudice dovrà dichiararsi incompetente a favore degli arbitri. L’influenza di tale modello sta peraltro nella “clausola di salvaguardia” prevista per l’ipotesi in cui le parti non abbiano a indicare alcuna fonte di riferimento, considerato che la norma precisa che in mancanza di una indicazione di parte, gli arbitri applicano le norme o la legge individuate ai sensi dei criteri di conflitto ritenuti applicabili” Il nuovo art. 818-ter c.p.c. prevede infatti che “L’attuazione delle misure cautelari concesse dagli arbitri è disciplinata dall’articolo 669-duodecies e si svolge sotto il controllo del tribunale nel cui circondario è la sede dell’arbitrato o, se la sede dell’arbitrato non è in Italia, il tribunale del luogo in cui la misura cautelare deve essere attuata. Resta salvo il disposto degli articoli 677 e seguenti in ordine all’esecuzione dei sequestri concessi dagli arbitri. Competente è il tribunale previsto dal primo comma”. Di seguito le nuove norme in materia di arbitrato societario. «Capo VI-bis Dell'arbitrato societario Art. 838-bis (Oggetto ed effetti di clausole compromissorie statutarie). - Gli atti costitutivi delle società, ad eccezione di quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio a norma dell'articolo 2325-bis del codice civile, possono, mediante clausole compromissorie, prevedere la devoluzione ad arbitri di alcune ovvero di tutte le controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale. La clausola deve prevedere il numero e le modalità di nomina degli arbitri, conferendo in ogni caso, a pena di nullità, il potere di nomina di tutti gli arbitri a soggetto estraneo alla società. Se il soggetto designato non provvede, la nomina è richiesta al presidente del tribunale del luogo in cui la società ha la sede legale. La clausola è vincolante per la società e per tutti i soci, inclusi coloro la cui qualità di socio è oggetto della controversia. Gli atti costitutivi possono prevedere che la clausola abbia ad oggetto controversie promosse da amministratori, liquidatori e sindaci ovvero nei loro confronti e, in tal caso, essa, a seguito dell'accettazione dell'incarico, è vincolante per costoro. Non possono essere oggetto di clausola compromissoria le controversie nelle quali la legge prevede l'intervento obbligatorio del pubblico ministero. Le modifiche dell'atto costitutivo, introduttive o soppressive di clausole compromissorie, devono essere approvate dai soci che rappresentino almeno i due terzi del capitale sociale. I soci assenti o dissenzienti possono, entro i successivi novanta giorni, esercitare il diritto di recesso. Art. 838-ter (Disciplina inderogabile del procedimento arbitrale). - La domanda di arbitrato proposta dalla società o in suo confronto è depositata presso il registro delle imprese ed è accessibile ai soci. Nel procedimento arbitrale promosso a seguito della clausola compromissoria di cui all'articolo 838-bis, l'intervento di terzi a norma dell'articolo 105 nonché l'intervento di altri soci a norma degli articoli 106 e 107 è ammesso fino alla prima udienza di trattazione. Si applica l'articolo 820, quarto comma. Le statuizioni del lodo sono vincolanti per la società. Salvo quanto previsto dall'articolo 818, in caso di devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari, agli arbitri compete il potere di disporre, con ordinanza reclamabile ai sensi dell'articolo 818-bis, la sospensione dell'efficacia della delibera. I dispositivi dell'ordinanza di sospensione e del lodo che decide sull'impugnazione devono essere iscritti, a cura degli amministratori, nel registro delle imprese. Art. 838-quater (Decisione secondo diritto). - Anche se la clausola compromissoria autorizza gli arbitri a decidere secondo equità ovvero con lodo non impugnabile, gli arbitri debbono decidere secondo diritto, con lodo impugnabile anche a norma dell'articolo 829, terzo comma, quando per decidere abbiano conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l'oggetto del giudizio sia costituito dalla validità di delibere assembleari. Art. 838-quinquies (Risoluzione di contrasti sulla gestione di società). - Gli atti costitutivi delle società a responsabilità limitata e delle società di persone possono anche contenere clausole con le quali si deferiscono ad uno o più terzi i contrasti tra coloro che hanno il potere di amministrazione in ordine alle decisioni da adottare nella gestione della società. Gli atti costitutivi possono prevedere che la decisione sia reclamabile davanti ad un collegio, nei termini e con le modalità dagli stessi stabilite. Gli atti costitutivi possono altresì prevedere che il soggetto o il collegio chiamato a dirimere i contrasti di cui ai commi 1 e 2 possa dare indicazioni vincolanti anche sulle questioni collegate con quelle espressamente deferitegli. La decisione resa ai sensi del presente articolo è impugnabile a norma dell'articolo 1349, secondo comma, del codice civile.». (Avv. Alessandro Moscatelli)